Raimondo Lorenzetti

Raimondo Lorenzetti, prestigiatore di sogni

Magico, Raimondo Lorenzetti. Candido, ma di ineccepibile puntualità, quando di sé dice tutto quello che potrebbe dire: “ho 59 anni, autodidatta, non seguo nessuna corrente, tutto quello che dipingo è frutto della mia fantasia”.
Sintesi lapidaria, da futuro epitaffio, tecnicamente perfetta. Cosa c’è bisogno di sapere di più per capire le sue opere? Niente, col che il mio ruolo di “introduttore” critico si potrebbe dire esaurito prima ancora di cominciare.
Se proprio si volesse aggiungere qualcosa alla sintesi perfetta di Lorenzetti, visto che è lui stesso a chiederlo, direi che, fra l’indicazione dell’età e la condizione di autodidatta, avrei considerata opportuna la presenza di un epiteto che ne avesse segnalato non tanto la provenienza geografica, ma, piuttosto, la condivisione di una particolare vocazione spirituale: “padano”. Padani, più ancora centro-padani, sono gli umori lirici di Lorenzetti, la sua disposizione sentimentale a controbilanciare la piattezza, l’irritante uniformità del territorio in cui vive, con la variabilità senza freni della attività fantastica dell’inconscio, su cui si apre una finestra che ci introduce nella dimensione dell’imprevedibile, dell’epifania che si manifesta per visioni misteriche, bizzarre, di interpretazione mai univoca, aeree nella loro inconsistente aderenza al terrestre, serene nella loro ordinaria mostruosità. La realtà viene ribaltata nel principio di ragione, annullata nella forza di gravità, rimescolata con un gioco infinito di tarocchi in cui tutti tutto può essere allo stesso modo vincente e perdente, bello e brutto, buono e cattivo, con storie mai concluse che ne rincorrono altre, incubi che diventano favole e favole che diventano incubi, continuamente, neanche darci il tempo di provare le sensazioni corrispondenti. Ciò che conta, in queste storie senza storia, in questi voli a mezz’aria senza una meta precisa, è altro, la capacità di ogni singola comunicazione visiva di sorprenderci, di spaesarci, anche di impressionarci negli accostamenti più mostruosi, nelle compenetrazione di colpi e di cose apparentemente inconciliabili fino a suggerirci la possibilità che quei tarocchi nascondano un significato recondito, oscuro, ma rivelatore del tutto come la ragione non sarebbe in grado di fare. Padano è il surrealismo di Lorenzetti, imparentato a quello dei piacentini e di tutti gli altri artisti dell’area di provenienza e formazione varia, che, dal soggiorno ferrarese di de Chirico in avanti, hanno percorso sentieri del visionarismo, per ereditarietà ideale piuttosto che diretta, per affinità di anima piuttosto che di sangue, di gusto piuttosto che di forma. Lorenzetti non ha padri legittimi, né vuole averli; gli basta essere figlio della grande madre, questa è la cosa più importante, essere il fratello di fratelli mai conosciuti, generato autonomamente da loro presso altre case, chissà quando, chissà in quale circostanza. E anche quando nella pittura dell’ultimo quindicennio, denuncia un mutamento stilistico, una maggiore maturità espressiva che dall’istintivo primitivismo della prima produzione è giunto a concepire forme più compiute che sembrano rivelare la conoscenza di alcuni mesi manifestazioni tipiche del rappel a l’ordre italiano per es. il Carrà di Valori Plastici, il Novecento di Oppi, il Realismo magico di Usellini e Donghi, Lorenzetti preferisce rimarcare la coerenza con se stesso e con il proprio inconscio, unica, grande fonte esplicativa delle sue poesie pittoriche. Ciò che muta più significativamente, semmai, e la consapevolezza del gioco onirico che viene accelerato, talvolta anche con cinismo e spietatezza, nel tentativo di ottenerne esiti sempre più imprevedibili, volteggi ed acrobazie aeree sempre più sprezzanti della gravità terrestre, compenetrazione sempre più costose, espressione sempre più mostruoso, espressioni sempre più urlate.
Dovremmo rimanerne maggiormente impressionanti, e invece, dopo un frisson iniziale, torna a prevalere l’aurea atarassia della narrazione immaginifica, l’ammaliamento del girotondo infinito che non smette mai di incantarci, anche se senza mai travolgerci.
E’ forse quel brivido iniziale di vertigine, quel senso di baratro più duro momento, prima del ritorno alla serenità dell’imprevedibile ordinario, il nuovo obiettivo lirico Lorenzetti, il traguardo espressivo a cui volutamente mira.
Nell’avvertirlo, ci sentiamo come serpenti ammaestrati che escono dalle ceste, attoniti, sorpresi della nostra debolezza, incapace di resistere al fascino delle musiche suonate da flautista Lorenzetti, anche quando non sono più in attese. Musiche che sappiamo senza fine, ma che seguiamo sempre come se ne attendessimo l’improbabile conclusione, contenti di essere caduti nel solito tranello, per l’ennesima volta.

VITTORIO SGARBI